By Saverio Comellini
“Leggerezza e superficialità sono due termini che spesso vengono usati come sinonimo l’uno dell’altro, ad indicare un qualcosa di poco approfondito, che resta in superficie, non entra nel merito delle questioni e preferisce giocarsi su luoghi comuni; oppure, ancora, una scarsa comprensione della situazione che si ha attorno che porta ad atteggiamenti sconsiderati e fuori luogo. Eppure, se poi si va a guardare nei fatti, le due parole possono anche possedere delle accezioni ben diverse. Mentre la superficialità non può che avere una connotazione negativa, per la quale nessuna salvezza o comprensione è possibile, con “leggerezza” si può benissimo anche intendere tutt’altro, con una accezione assolutamente positiva: ovverosia, la capacità di dire anche cose molto importanti e molto profonde, senza per questo ricorrere a fuochi d’artificio retorici o appesantendo l’esposizione oltre un limite tollerabile pur di far passare un messaggio. Con leggerezza si possono dire cose di un valore immenso, esplorare vizi e virtù, mettere alla berlina comportamenti e consuetudini. Un buon esempio di questo, potrebbe essere il cinema di un gigante come Charlie Chaplin o di ottimi cineasti nostrani come Steno e Dino Risi, ad esempio.
Cris Pinzauti è un noto musicista, cantante e autore dell’underground fiorentino. Il suo lavoro come solista o come membro di band quali Devil’s Mojito e Suzy Q ha ormai raggiunto il lungo corso di qualche decade e questa sua prima uscita discografica come solista arriva quindi in un preciso momento di crescita e maturazione personale e artistico. Non è il lavoro di un virtuoso dello strumento e nemmeno di un giovane di belle speranze alla ricerca di un proprio spazio e di una propria cifra stilistica. Come tutte le opere prime possiede però freschezza e perfino qualche ingenuità o, per meglio dire, qualche piccola scossa di assestamento non perfettamente raggiunto. Pinzauti suona praticamente tutti gli strumenti e canta quasi interamente le tracce qui contenute, presentando qua e là degli ospiti essenziali allo sviluppo del brano. Non si tratta di una parata di “ospitoni” pagati per apparire su un CD come specchietti per le allodole, ma di amici che partecipano e danno un contributo musicale proprio e vero all’opera del compositore. Perché qui, come detto, non stiamo valutando il lavoro di un chitarrista che mette in mostra le proprie qualità tecniche sperabilmente con qualche melodia accettabile e capace di far deglutire il malloppo all’incauto ascoltatore, ma un album nel vero senso della parola, composto da musica e parole, melodia, cuore e senso.
Il registro prescelto è quello dell’esibizione in acustico. Il che comporta degli arrangiamenti essenziali, per quanto assolutamente funzionali al brano, e una durata media delle canzoni piuttosto ridotta; tanto che, alla fine dell’ottava e ultima traccia, il contatore indica ventisei minuti e ventidue secondi. Una scelta ben precisa che toglie inutili orpelli ai brani, ridotti alla loro essenza e pienamente riconducibili alla forma canzone non più lunga di quattro minuti. A livello di scelte compositive, invece, se il tutto resta riconducibile nel grande alveo del rock, è innegabile che lo spettro indagato sia piuttosto variegato e raccolga suggestioni provenienti dal rock’n’roll, dal sound sessantiano della west coast, quanto da un repertorio cantautoriale americano di ampio raggio. Il viaggio è lungo e articolato, pur nella sua breve durata e così non è difficile riscontrare delle atmosfere western piuttosto che folk, in un contesto lirico in realtà piuttosto dark, come suggeriscono i titoli dei brani. Innegabile che qua e là si avvertano le influenze di musicisti quali Tom Waits e Neil Young, ma alla fine quello che colpisce non sono tanto i riferimenti sparsi qua e là, come ad esempio il testo di Zombie Attack, composto quasi interamente da titoli di brani significativi che ben indicano il background musicale diPinzauti, ma la sua capacità di adattare se stesso –in particolare per quanto riguarda il registro vocale- e la propria musica alle diverse atmosfere dei brani. Vocalmente il musicista non possiede un timbro indimenticabile o particolare tecnica vocale, ma lo sforzo interpretativo resta lodevole, così come la volontà di mettersi al servizio dei brani al meglio delle proprie possibilità, con un risultato centrato e piacevole. Scendendo nel dettaglio dei brani è abbastanza difficile non rimanere aggrappati alla melodia del singolo My Black Is Back, perfetto nel suo aprire ufficialmente l’album dopo l’introduzione di The Devil in the Closet, con una valida costruzione delle chitarre. Nel contesto si inserisce anche la riuscita e particolare cover di Wasted Years degli Iron Maiden, resa credibilmente in veste acustica, appena rallentata rispetto all’originale e decisamente più breve, ma capace di dare un ulteriore spaccato della personalità musicale dell’artista. Arriva a questo punto uno dei brani più riusciti del disco, se non forse il più bello in assoluto: Down è un brano dall’incedere quasi pop, sommesso e malinconico, dalla melodia ben costruita, sulla quale si inseriscono i commenti dell’ospite Francesco Bottai alla chitarra acustica solista, che donano un flavour quasi flamenco alla canzone. Altro punto forte senza dubbio e la più movimentata Forever Yin Forever Yang, che presenta l’ospitata graditissima di Marco Di Maggio, semplicemente il più grande chitarrista rock’n’roll nazionale e non solo, che col suo stile inconfondibile e dall’elevato tasso tecnico, caratterizza una traccia che arriva al momento giusto e rilancia il disco verso la chiusura. In primis, una sentita Hellbound Train, storia di un abbandono cantata col giusto trasporto; infine, la citata Zombie Attack, altro brano di punta del disco grazie anche alla divertente costruzione lirica (if rock is dead, we are a zombie attack!), che si segnala per la presenza di Iacopo Meille (Tygers of Pan Tang, Mantra) alla voce, il quale come di consueto non fa mancare la propria classe superiore. Nel mezzo la curiosa e inquietante The Vampire’s Lullaby, divisa in due parti, la prima strumentale e la seconda cantata, la quale si presenta come un palese omaggio a Tom Waits e alla sua inconfondibile vocalità, bagnata da alcool, sigari e zolfo luciferino.
Come dicevamo in apertura, tra leggerezza e superficialità può e deve esistere una bella differenza. Black non è uno di quei dischi che cambieranno la vita a chi lo ascolterà, né che cambieranno la storia della musica. Non è il disco di un virtuoso e non è nemmeno il disco di un cantautore, è l’opera di un musicista e compositore dall’evidente esperienza e rodata capacità, che ha messo insieme un lotto di brani ben costruiti e congeniati, suonati e registrati con evidente divertimento e altrettanto evidente voglia di dire la propria, arrivato ad un certo punto della propria esperienza artistica. C’è dell’ottima musica tra questi solchi, gli omaggi dovuti a chi ha contribuito a costruire una identità musicale e molto del personale di chi ha composto e registrato il tutto. La chiave di lettura è quindi quella della leggerezza e del coinvolgimento, dell’omaggio e dello sguardo rivolto contemporaneamente al passato e al futuro. La profondità arriva in realtà forse più dai testi che dalla musica, che si presenta fin troppo variegata e forse manchevole di una regia complessiva rigorosa, come di un colpo vincente. Eppure, sarà forse anche per la durata, ma questo è il classico disco che si può ascoltare a ripetizione e non stanca. Segno evidente che il tutto non è stato concepito e realizzato con superficialità e che di sostanza, pur senza mai calcare la mano, se ne trova eccome.”